Les Choristes
1h 35′
Regia: Christophe Barratier
La Francia dell’immediato dopoguerra e un istituto per ragazzi difficili, un musicista disoccupato e un lavoro da sorvegliante, la perdita e il recupero, l’infanzia e la musica, l’apprendimento dell’arte come riscatto dalle sofferenze e motivo di speranza. Nel 1945 Jean Dréville realizza La Cage aux Rossignols (la gabbia per usignoli), film da cinéphile difficili da trovare persino nei dizionari di cinema; Barratier lo vede circa trent’anni fa in televisione e se ne innamora. Logico che giunto a scrivere il suo primo lungometraggio, spinto dal duplice interesse verso la musica e l’infanzia, si ricordi di quel film.
Ex musicista esso stesso, Barratier mantiene l’ambientazione cronologica al secondo dopoguerra, in cui Clement Mathieu, musicista disoccupato, diviene sorvegliante in un istituto per ragazzi difficili. La figura del maestro – d’arte, di pensiero, di vita – è spesso motivo di eroica lotta per il recupero di giovani distratti, in via di corruzione, solitari, abbandonati, personaggio carismatico e adorato al punto da provocare le rivolte degli allievi. La squadra, il coro, l’attività fisica, la letteratura, la musica quale collante istituito da un uomo che combatte un sistema coercitivo che tende a spezzare la creatività e la personalità di giovani persone – sempre di sesso maschile. L’uomo deve lottare prima contro la diffidenza dei ragazzi, poi contro i numerosi ostacoli posti dai propri superiori, riuscendo infine a conquistare i propri adepti. Il cinema ci ha dato numerosi esempi a proposito e le tappe sono sempre uguali, di rito, secondo un codice che mutua dalla letteratura per l’infanzia. Il contrasto con il rigido direttore è d’uopo, serve a dare sapore alla conquista dell’impossibile, la presenza di un talento naturale è motivo d’incentivo per il maestro, il gruppo quale tramite per educare alla solidarietà e al contempo incoraggiamento per una vita diversa; un classico.
Eppure Barratier supera ogni tentazione sentimentale, melodrammatica, sdolcinata per dare al suo primo lungometraggio la misura di un interessante racconto di formazione. E’ Jean-Baptiste Maunier, musicista affermato, a ricordare il tempo della rinascita, il passaggio cruciale al presente, dove la personalità di Mathieu imprime sulle giovani menti un ricordo che significa futuro.
Nell’istituto correzionale ogni cosa ha un suo ordine fino a quando Mathieu offre al glaciale e buio luogo in cui lavora il calore della passione, che la fotografia di Le Choristes inizia gradualmente ad assumere secondo la consueta empatia filmica; la metafora della libertà ritrovata in un ambiente dove libertà è sinonimo di indisciplina prende forma dal coro, dove ognuno deve essere parte di un tutto costruttivo, unione che aiuta ad uscire dalla solitudine sofferta, principio di una lenta ma inesorabile riconquista del proprio io. A sua volta il coro è veicolo dell’arte, dell’espressione di se, del poetico in luogo delle tenebre.
Infanzia e musica. Barratier s’inserisce nella storia che pure ha creato, con quella forma dell’assenza registica che meglio di ogni altra aiuta i personaggi a vivere le vicende come se assumessero lo status di esseri indipendenti, vivi, e che raramente vivono passaggi fondamentali della propria esistenza accorgendosi della loro importanza al punto da vedersi protagonisti di pompose scene epiche. Di più, Mathieu è goffo, tutt’altro che dotato di aplomb intellettuale, un uomo che pone il riscatto dei ragazzi alla stregua del proprio, riuscendo in un’impresa che finalmente da senso alla sua storia personale. La vittoria dei perdenti, dei falliti. Dopo la seconda guerra mondiale la speranza aveva le fattezze di un bisogno di rinascita contro la violenza, le angherie, la morte; oggi Barratier raccontando dello ieri sembra ricordarci di cosa i dormienti hanno bisogno per salvarsi da una condizione di eterno dopoguerra mentre la guerra è ancora in atto. Di questi tempi sembra un must di molti cineasti, chi sa perché.
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